Nel nostro piccolo vogliamo ricordare uno degli anziani del paese Adolfo Codarin (conosciuto come "Dolfo Çêc") che oggi ci ha lasciati alla veneranda età di 95 anni, pubblicando la sua testimonianza degli anni di guerra tratta dal libro "Un paese e i suoi alpini". Questi suoi ricordi sono stati raccolti in un'intervista nel 1997.
Artigliere Alpino Rodolfo Codarin (classe 1915)
Sono nato a Pozzuolo del Friuli ma risiedo a Morsano dalla nascita. Fui arruolato nell’aprile 1936 nel III Reggimento Artiglieria da Montagna - 17ª batteria. I miei 18 mesi di servizio militare iniziarono con l’addestramento a Gorizia. Dopo Gorizia andai a Merna, poi Rupa di Merna e quindi di nuovo a Gorizia. Ero nella squadra comando ed ero goniometrista, in pratica stavo con gli ufficiali ed andavo a disporre i goniometri, poi il sottotenente, il mio era il S.Ten Buttiglione, determinava le quote. Questo fu il mio incarico fino al congedo nel 1938. C’era un unico goniometrista per batteria (300 uomini) ed avevano scelto me perché avevo il titolo di studio più alto di tutti, avevo fatto la “sesta” elementare. Ricordo che all’epoca si sparava con il moschetto 91 che era lungo ed aveva un forte rinculo; al poligono non ero molto bravo e spesso facevo il “viva l’Italia” cioè un’intera rosa di colpi fuori dal bersaglio. In ogni caso il 91 era un’arma dell’antico testamento! Una cosa che ricordo della naja è una marcia vicino a Caporetto nel 1936 al campo estivo. Un mulo, che stava nel sentiero soprastante, scalciò e fece partire una grossa pietra che mi sfiorò la testa ma mi centrò un piede…mi feci due mesi d’ospedale militare con il piede rotto!
Terminato il periodo di leva iniziai a lavorare alla SNIA di Torviscosa. Tuttavia ci volle poco tempo perché mi richiamassero ed il 3 settembre 1939 mi ritrovai di nuovo in divisa e sempre nella 17ª batteria! Da richiamato andai a Rupa di Merna e poi di nuovo a Gorizia, in una caserma in via Trieste, dove rimasi fino all’armistizio di Badoglio. In realtà sarei dovuto partire per il fronte tante volte. Mi chiamarono per l’Albania, poi per la Grecia ma non mi fecero mai partire per i problemi di salute che avevo: dolori allo stomaco ed ero spesso ricoverato in ospedale. Mi avevano giudicato non idoneo al combattimento ed allora rimasi sempre a Gorizia incaricato di diversi servizi in caserma agli ordini del Tenente Speranza. Dal fronte, a mano a mano che i reparti si assottigliavano, arrivavano richieste di rincalzi: anche solo 15-20 soldati da inviare. Usciva un elenco e chi era chiamato partiva per la guerra! Io rimasi a Gorizia per quattro anni, tuttavia solo nel primo anno fui soggetto a chiamata al fronte, dal secondo anno al congedo ebbi la dispensa e fui reso idoneo solo al servizio territoriale; questo significava fare pattugliamenti nella zona circostante la città. Ad ogni modo, di solito, facevo il piantone per i sottufficiali, il cameriere, l’addetto alla mensa e così via. All’epoca non c’era molto da mangiare e ricordo, che quando venivo a casa, mi davano sempre del formaggio e delle pagnotte da portare in caserma dove si mangiavano solo verze bollite. Allora eri costretto o a comprarti da mangiare o a portarti dei viveri da casa. I magazzini poi erano stracarichi di vestiario e scarpe ma a noi non davano nulla. Era equipaggiamento ufficialmente destinato al fronte, dove i soldati morivano di freddo senza vestiti e scarpe; finita la guerra alcune casse piene ritornarono dalle zone di combattimento…e giù tutti a rubare e portarsi a casa della roba…eh, ne hanno fatte di porcherie!
In ogni caso, ci sono anche cose divertenti da ricordare…nel 1940 a Gorizia c’erano alcuni compaesani appena arruolati. Questi bocia erano: Tite Cecon (Giobatta Cecconi), Duilio Bastian (Duilio Di Tommaso) e Bepo Picot (Giuseppe Picotti). Erano tutti della classe 1919 e quindi di alcuni anni più giovani e naturalmente con meno anni di servizio di me…quindi ero loro nonno a tutti gli effetti. Come usanza chi aveva dei “figli di naja” del suo paese aveva il diritto di far loro gli scherzi, tuttavia, io ero molto diplomatico e per non espormi direttamente con dei paesani, incaricavo degli scherzi gli altri “vecchi”. Scherzi tipici erano quelli di mandarli a cercare una gavetta che si era persa e farli girare per la caserma in cerca di qualcosa che in realtà non esisteva… Un giorno scoprimmo che c’era uno di Castions, un “Bacagnat”, che era abbastanza benestante, la sua famiglia aveva molti campi, ma erano tutti estremamente spilorci! Allora tutti i vecchi uscirono in città a bere con lui, bevvero moltissimo, mangiarono a sazietà e alla fine gli fecero pagare tutto il conto!
Bisogna ammettere che alle volte c’era qualcuno che faceva scherzi pesanti…qualche nonno, infatti, si divertiva a buttare acqua gelata sulle reclute mentre erano a dormire in branda. Il più delle volte si trattava solo di scherzi innocui come l’obbligo di lavare le gavette ai nonni, fare la branda e così via. Ricordo però che una volta, eravamo a Merna in aperta campagna, faceva freddo e soffiava la bora da Trieste. Decidemmo di fare la festa dei nonni! Eravamo vicino ad una conceria, prendemmo un carretto, si fece salire una decina di reclute tra cui Tite Cecon, li vestimmo di pelli e li si mandò in giro per il paese tra le risate di tutti. Comunque con i paesani non mi sbilanciavo direttamente perché poi sapevano dove venire a cercarmi!!! Gorizia era una caserma di addestramento reclute ed il tempo per noi addetti ai servizi passava molto lentamente e con i bocia ci si divertiva un po’. Io, per fortuna, quando avevo la bicicletta, tornavo a casa quasi ogni domenica ed alle volte veniva a trovarmi mia moglie. Tuttavia quando il nostro comandante iniziò a sentire odore di guerra ridusse al minimo i permessi. Beh, una volta, era il giorno del Perdon (la festa tradizionale di Morsano) ad inizio settembre ed io non ebbi il permesso per andare a casa così mia moglie, Teresina, venne a trovarmi a Gorizia. Le concordai appuntamento davanti al duomo, o meglio, davanti ad una chiesa con due campanili che io credevo fosse il duomo. In realtà lei arrivò al duomo, quello vero, e mi aspettò tutto il pomeriggio mentre io la aspettavo davanti all’altra chiesa. Non vedendola arrivare pensai che fosse rimasta a Morsano e decisi di andare al cinema. Nel frattempo lei si era preoccupata ed aveva iniziato a piangere; allora un soldato la vide e si offrì di accompagnarla da me il giorno dopo. Così lei dormì a casa del militare, che nel frattempo era tornato in caserma, e mi raggiunse il giorno dopo a Solcano dove eravamo attendati vicino ad una caserma della Guardia di Finanza. A mattina presto venne la sentinella a chiamarmi e mi presentò mia moglie, allora, la caricai a cavalcioni sul ferro della bicicletta e lasciai il campo diretto a casa. Nell’uscire mi intravide il capitano…comunque non ero l’unico ad andare a casa in “permesso volontario”, chi abitava vicino, spesso sgattaiolava dall’accampamento. Infatti, il lunedì successivo mi ripresentai e fui chiamato a rapporto con altri 15 che avevano fatto la mia stessa mossa. Così ci sentimmo una lunga predica sul fatto che eravamo in guerra, che non ci si poteva allontanare senza permesso e che…meritavamo la fucilazione!!! Ci diede cinque giorni di camera di rigore: mi misero in una stanza, una cantina, dove c’erano balle di paglia che noi spargemmo per terra per usare come branda. Durante il giorno stavamo veramente bene! Mentre gli altri stavano sotto la pioggia nelle tende, noi eravamo all’asciutto ed avevamo anche la luce elettrica. Si passava la notte a giocare a carte e chi perdeva mandava qualcuno a prendere qualche litro di vino, dell’uva o delle pere. Dopo tre giorni, il capitano si accorse che ci andava meglio degli altri in tenda ed allora dispose che dormissimo lì…ma che durante il giorno andassimo in marcia e di “brusca e striglia” con i muli!
Ad ogni modo io feci vita da campo fin dal giorno del richiamo, includendo poi la dichiarazione di guerra (che non trovò nessun entusiasmo in caserma), fino all’armistizio. Il primo elemento di novità fu a fine luglio 1943, la mozione Grandi al Gran Consiglio Fascista. In città, arrivò l’ordine a tutti i militari di ritornare in caserma perché era avvenuto un fatto gravissimo ma nessuno sapeva di cosa si trattasse [Mussolini era stato messo in minoranza ed arrestato]. Sul momento non si sapeva niente, ma ricordo che il mio tenente ci disse che doveva essere accaduto qualcosa di serio e che forse stava per scoppiare una rivoluzione. Io ero al cinema e dovetti ritornare in caserma in fretta e furia dove ricevemmo l’ordine di non muoverci. L’8 settembre, invece ci fu il vero caos; molti soldati, avuta la notizia dell’armistizio scapparono subito a casa per paura di essere fatti prigionieri dai tedeschi, altri rimasero alcuni giorni in attesa di ordini…che non arrivarono! Infatti, sebbene il tenente Speranza ci avesse indicato che per noi era meglio attendere le disposizioni dei superiori, alcuni miei commilitoni demolirono un muro sul retro della caserma ed a gruppi iniziarono a scappare. Gli ufficiali sapevano ma tacevano: tanto il futuro era incerto per tutti, anche per loro! Eravamo in 200 circa ma in quei momenti la legge che vigeva era “ognuno per se”. Io aspettai fino all’11 settembre e poi, visto che tutti scappavano, assieme ad altri 10/12 ragazzi della zona di Ontagnano mi incamminai verso casa. Nella zona c’erano già alcuni nuclei partigiani, sia italiani che slavi, che venivano ad invitarci ad aderire alle loro formazioni. Ci dicevano che sull’Isonzo c’erano i tedeschi che ci aspettavano per deportarci in Germania ed inoltre volevano che noi consegnassimo le armi. Noi non consegnammo niente e comunque passato l’Isonzo tedeschi non ne incontrammo. Naturalmente seguivamo sentieri tra i campi e le vigne evitando le strade principali. All’altezza di Fauglis, incontrai mia madre che mi stava venendo incontro. Dopo alcuni giorni, in paese vennero a cercarmi i tedeschi che mi portarono a lavorare con la TODT. Così finii con l’andare a costruire la pista d’atterraggio di Chiasiellis, e a scavare buche di tre metri dietro al cimitero! Alle volte, mentre stavamo lavorando all’aperto, c’erano delle incursioni aeree ed allora ci si andava a nascondere di corsa dentro un canale…bisognava evitare di rimanere allo scoperto o di nascondersi tra le “tamossis” (i covoni di canne di mais). Durante un’incursione, puar Attilio Tissan morì proprio perché era andato a nascondersi dentro una “tamosse” e l’aereo mitragliò il campo centrando in pieno il suo nascondiglio. Sporadicamente, capitava che si andasse a Risano a scaricare vagoni di cemento che serviva per la costruzione delle piste d’atterraggio di Chiasiellis e di Lavariano, che ospitava gli aerei tedeschi più grossi. A parte qualche incursione aerea, non fummo mai investiti da combattimenti. Finalmente, un giorno i tedeschi ed i cosacchi scapparono dal paese e noi tutti rimanemmo a casa dal lavoro…e la guerra fu veramente finita!
In definitiva devo dire che mi è sempre andata bene: quando lavoravo mi hanno sempre pagato ed io, che ho sempre avuto poca passione per le armi, me la sono cavata senza combattimenti.
Artigliere Alpino Codarin, presete!
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1 commento:
Sentite condoglianze alla famiglia
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